Agricoltura sociale ed educazione degli adulti
Ogni processo di recupero, reinserimento sociale ed inserimento lavorativo, prevede delle azioni di mediazione – e la presenza di mediatori – con lo scopo di guidare la persona nel suo percorso, facilitandone i compiti di fronte alle sfide poste dalla realtà e creando un contesto almeno inizialmente protetto, in modo da ridurre la “distanza” tra la situazione soggettiva e la realtà oggettiva nella quale la persona viene reinserita.
Questa mediazione, necessaria soprattutto nelle fasi iniziali dell’inserimento, andrà progressivamente diminuendo nella misura in cui la persona cresce in autonomia, responsabilità, autostima e competenza. Questo comporta la presenza di operatori, modelli pedagogici, strumenti e contesti adeguati, e ancor prima di un orizzonte antropologico ben definito, sullo sfondo del quale pensare e progettare ogni singolo percorso. In altre parole non si tratta solo di chiedersi cosa fare per far crescere una persona, cosa di per sé non irrilevante, ma ancor di più è necessario domandarsi verso dove farla crescere e fino a dove prevediamo che possa effettivamente arrivare, perché se è vero che ogni progetto ha senso in relazione a degli obiettivi, è altrettanto vero che questi devono essere realistici ed adeguati al contesto ed alla persona chiamata a raggiungerli.
Un modello antropologico per l’Agricoltura sociale
Le linee di riferimento che hanno ispirato la metodologia di accompagnamento e monitoraggio che ho elaborato nel mio lavoro di counselling nell’ambito dell’agricoltura sociale, nascono da uno sguardo olistico sulla persona colta nella sua centralità e quindi capace di coglierne l’individualità e contemporaneamente il suo essere in relazione, portatrice di unicità e dignità ed allo stesso tempo aperta agli altri ed alla realtà. Si tratta quindi di una prospettiva nella quale la persona è colta come un essere “in cammino”, “che prova la sofferenza nel suo corpo e nel suo animo, che sa ridere e giocare, che si avverte fragile e diviso; è la persona concreta, che in ogni suo modo di esistere vive e manifesta se stessa, svelando o tradendo il proprio mistero”[1].
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Quale concetto di persona?
La persona, come io la intendo nel mio lavoro, non è individuabile solo in relazione a premesse genetiche, storiche ed ambientali ma è anche un essere personale che con le sue scelte – anche sbagliate – dà voce alla propria interiorità; è un “individuo in relazione”, ed in quanto tale può essere compresa solo se posta al centro della sua storia socio-relazionale, fatta di legami imperfetti che in modi diversi l’hanno segnata, a volte ferita, spesso condizionandone in qualche misura le scelte, le prospettive ed i modi di guardare ed interpretare la realtà.
Di fronte ad una simile persona sentiamo di dover assumere sempre un atteggiamento di rispetto, inteso come sguardo che si prende cura dell’altro ed allo stesso tempo attento a non invadere, condizionare o compromettere ciò che gli è proprio[2]. Questo si traduce nello stare sempre di fronte all’altro mantenendo una giusta distanza, evitando facili semplificazioni, inutili moralismi e troppo semplici e spesso affrettate classificazioni. Abbiamo deciso di utilizzare il termine “utenti” per indicare le persone inserite nei percorsi di agricoltura sociale ma nel parlare comune, dove saltano le convenzioni, ci si riferisce ad essi chiamandoli semplicemente “ragazzi”, quasi a denunciare il disagio verso termini riduttivi che ne dicono lo stato ma non la realtà di ciò che più profondamente sono. “Ragazzi”, quindi per dichiarare la convinzione di aver a che fare con persone, in tutta la loro complessità; “ragazzi” pur non essendolo più da molto tempo, perché si tratta di adulti che a causa di storie, scelte, situazioni, circostanze particolari, si trovano nuovamente a mettere mano alla propria vita, a dover riscoprire autonomie e responsabilità dimenticate, ad acquisire nuove competenze, in una parola: a crescere.
Da questo approccio nasce un modo specifico di pensare il lavoro di “promozione sociale”, avulso dalla logica del merito ma allo stesso tempo distante da un superficiale “buonismo”, come ad una possibilità, offerta ad ogni persona che abbia le disposizioni sufficienti, di riappropriarsi della propria vita dandole un nuovo orientamento progettuale, nella consapevolezza delle difficoltà e dell’alta possibilità di fallimento. Si tratta certamente di un obiettivo “alto” che va ben al di la della semplice assistenza e sempre da adeguare alla realtà soggettiva di ogni persona, in modo che l’esperienza proposta non diventi nuova occasione di fallimento e frustrazione ma una possibilità concreta per riscoprire in pieno la propria dignità.
Non si tratta quindi di premiare chi sta alle regole o punire chi le trasgredisce ma di dare a ciascuno l’opportunità di “ritrovarsi” e di ricostruire le condizioni per un maggiore – seppure limitato – benessere personale ed una migliore qualità della vita, per la quale il lavoro, con tutte le sue caratteristiche, è una condizione fondamentale in quanto elemento essenziale per una effettiva autonomia ed una maggior autostima.
Questa prospettiva antropologica trova il suo fondamento nei principi personalisti della Costituzione italiana e risponde, a mio avviso, alle premesse metodologiche della Legge 328/00 la quale promuove un passaggio di mentalità dalla logica dell’assistenza a quella della promozione della persona.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (Costituzione della Repubblica italiana, Art. 3).
[1] Cfr F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero, Piemme 1993, 338.
[2] Mi riferisco al verbo respicio, re-specere, da cui il termine rispetto, nel suo significato di “guardare con attenzione” ma sempre “badando a…” . Ma dal momento che specere significa anche guardare dall’alto, o da lontano, pensiamo al rispetto come uno stare di fronte all’altro in modo da lasciare uno spazio, una zona di liberta, che permette la vicinanza senza condizionare: anche questo è una espressione della cura dell’altro.
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