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Fotografia sociale, comunicazione e responsabilità

Fotografia sociale, comunicazione e responsabilità

 

Una foto che parte da un’idea banale non può che essere banale (A. Feininger)

 

Una delle principali differenze tra una buona fotografia ed una fotografia banale è legata, a mio avviso, alla capacità dell’immagine di trasmettere qualcosa, di comunicare.

Cosa intendo con “comunicare”? Si potrebbe aprire una lunga discussione sul tema, ed in seguito non escludo di pubblicare qualcosa, ma per il momento è sufficiente definire, in questo contesto, l’idea di comunicazione come una realtà complessa costitutiva dell’essere umano, alla base delle relazioni sociali, attraverso la quale la persona esprime, consapevolmente o meno, qualcosa di sé e del proprio vissuto, un’idea, un’emozione.

L’uomo è un essere comunicante e lo fa in svariate forme. Anche attraverso la produzione artistica.

Seguendo il ragionamento di A. Feininger nella frase citata in apertura, una fotografia che non ha nulla da dire, anche se tecnicamente perfetta, è banale perché oggettivamente incapace di significare, di raccontare; è un’immagine che non comunica, un puro esercizio tecnico, senza storia né anima.

Al contrario, una fotografia significativa è un’immagine capace di rimandare ad altro, che tenta, anche se spesso in maniera imperfetta, di dare forma ad idee, contenuti, emozioni che il fotografo (o la comunità che egli rappresenta) intende comunicare.

Una buona fotografia richiede quindi un pensiero precedente allo scatto, una rappresentazione mentale di ciò che vogliamo cogliere e rappresentare, un’idea di ciò che si vuole suscitare in chi fruirà della visione dell’immagine. Ed aggiungerei, una presa di posizione verso la realtà raccontata.

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Warren Richardson, Hope for a New Life ISO 6400 – f 1.4 – speed 1/5s

A supporto di queste affermazioni propongo l’immagine “hope for a new life” di Warren Richardson, insignita del riconoscimento di photo of the year 2016 dal Word Press Photo Contest. Un’immagine tutt’altro che perfetta dal punto di vista tecnico (anche se, guardando i dati di scatto, il risultato tecnico è in realtà notevole) e soprattutto priva di tutte quelle manipolazioni da “wow effect” che tanto vanno di moda oggi, eppure carica di simboli, significato ed emozioni. Una foto bellissima nella sua essenzialità, proprio per la sua capacità comunicativa, talmente forte da lasciare in secondo piano ogni considerazione tecnica.

L’arte di “dipingere con la luce” è da sempre un canale di comunicazione privilegiato per raccontare storie, descrivere situazioni, svelare dinamiche non facilmente esprimibili con il solo utilizzo della parola. Oggi, con la facilità di realizzazione e diffusione delle immagini questa caratteristica è notevolmente amplificata ed a volte abusata. Si pensi ad esempio all’uso dell’autoritratto, incrementato e diffuso dagli smartphone e dai social network, sempre più spesso usato come forma di auto narrazione e manifestazione del vissuto emotivo.

La caratteristica narrativa della fotografia, storicamente legata all’esigenza di comunicare, si lega oggi anche ad esigenze artistiche, creando interessanti connubi tra documento ed estetica, narrazione e stile personale, accentuando la relazione tra comunicazione e personalità del fotografo.

 

Fotografia sociale è un atto di responsabilità

 

Un’idea un concetto un’idea
finché resta un’idea è soltanto un’astrazione

 

La fotografia, come abbiamo detto, ed in modo particolare la fotografia sociale, è un atto narrativo, è comunicazione, è rappresentazione visiva e concreta di un’idea.

Fotografiamo per comunicare, quindi. Ma in questa narrazione il fotografo non è mai, a mio avviso, un soggetto esterno. Come ho anticipato, se la foto richiede di essere “vista” già prima dello scatto, questa non può prescindere da un’idea del fotografo circa la realtà narrata.

Quando scatto una foto, fosse anche solo un paesaggio o una foto di famiglia, devo posizionarmi di fronte alla scena. Sono convinto che questo posizionamento non avvenga davanti ma all’interno della scena stessa, della quale sono parte non visibile nel risultato finale, perché la realtà non è fatta di spazi separati ma è un continuum, un “sistema” nel quale ognuno di noi è inevitabilmente immerso e sul quale influisce inevitabilmente con la propria esistenza. La foto di famiglia ne è l’esempio più chiaro: nel momento in cui scatto una foto a mia figlia ne sono sempre padre, partecipe della sua vita e di ciò che la scena in quel momento racconta; sono presente nella scena, anche se non visibile in essa.

Andiamo avanti su questo ragionamento. Nel momento in cui decido di fare una foto scelgo una distanza, l’ottica, l’inquadratura, la posizione di ripresa, la profondità di campo, etc. Ovvero faccio delle scelte ben precise per raccontare quella scena in un certo modo, in base al mio posizionarmi in essa. Sono scelte che, inevitabilmente, diventano anche interpretazioni, espressioni di idee personali sulla realtà.

Fotografando, quindi, racconto ed allo stesso tempo mi racconto, perché la scelta di realizzare lo scatto in quel modo dice qualcosa anche di me e del mio modo di leggere la realtà.

Mi piace pensare a quanto ho appena descritto come ad una metafora della partecipazione che vive, inevitabilmente, ogni fotografo che tenta di descrivere la realtà attraverso la fotografia: raccontare la realtà con le immagini è prendere posizione in essa. L’interpretazione della scena, dallo scatto alla post-produzione, sarà sempre legata al posizionarsi nella realtà, ad una visione personale, sicuramente soggettiva, di essa, nata da un intimo contatto con ciò che viene rappresentato e frutto di scelte compiute.

Questo introduce un aspetto ulteriore rispetto a quanto descritto fino ad ora, quello della responsabilità. Fotografare, è un atto di responsabilità, inteso proprio come accettare di “essere in grado di rendere conto” delle proprie scelte narrative, stilistiche e di contenuto. Ma non solo: proprio perché si sceglie di interpretare e raccontare la realtà in un certo modo, tentando di suscitare certi sentimenti, il fotografo si rende responsabile delle scelte che compie verso la realtà stessa, in quanto soggetto che decide di prendersene cura facendosi di essa portavoce.

Non posso, ad esempio, documentare le meraviglie della natura con degli scatti di animali nel loro habitat, e poi ignorare gli appelli alla salvaguardia di quegli stessi habitat pensando che non sia affare mio. E certamente non posso essere io quello che, per primo, minaccia quell’habitat, magari anche solo per realizzare le foto di cui vado tanto fiero!

Ancora, che senso avrebbe dedicare tempo ed energie a ritrarre persone in condizione di marginalità se questo non è legato ad un mio impegno personale e concreto per aiutare quelle stesse persone a ritrovare senso e dignità?

Concludo dando forza a queste riflessioni con le parole di Sebastiao Salgado:

“Nelle mie foto c’è tutta la mia vita, le mie idee, la mia etica. Oltretutto, una foto è sempre inscritta all’interno di una storia, a cui io partecipo direttamente, dato che di solito trascorro molto tempo nei luoghi o con le persone che vorrei fotografare. Dietro ogni scatto c’è questa continuità, questa partecipazione. E l’immagine deve riuscire a trasmetterle”.

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About Cristiano Marini

Mi chiamo Cristiano Marini e su questo blog pubblico le mie fotografie ed i miei articoli su fotografia, formazione, educazione ed inclusione sociale. Se vuoi, puoi comunicare con me attraverso la sezione Contatti o sui social.