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fotografia sociale: scattare con il cuore

fotografia socialeIn un precedente articolo sulla fotografia sociale, ho introdotto il concetto di compassione come uno degli effetti attesi da una fotografia (sociale) efficace. Dopo questa affermazione, è lecito chiedersi come sia possibile realizzare scatti capaci di suscitare compassione in coloro che li osserveranno.  E’ mia profonda convinzione che questo risultato sia pienamente raggiungibile solo se il fotografo è effettivamente capace di osservare e raccontare la realtà in un certo modo. Quale? Scoprilo continuando a leggere questo post.

 

Guardare la realtà con occhi diversi

“Non ho mai scattato una foto, buona o cattiva, senza che mi provocasse un turbamento emotivo”

La frase citata è di Eugene Smith, uno dei più famosi fotografi documentari statunitensi. Fotografo di guerra per la famosa rivista Life durante il secondo conflitto mondiale, nel quale rimase ferito seriamente, scelse la fotografia come strumento di sensibilizzazione sociale. Un ottimo testimonial di quanto sto per presentare1.

Per raccontare una storia occorre conoscerla. Ma per conoscere in modo autentico e profondo non basta vedere e sapere i fatti, occorre anche “sentire” ciò che rappresentano per i protagonisti che li vivono. Mi riferisco ad una conoscenza che non si ferma al sapere intellettuale della realtà ma, oltre questo, cerca di coglierne il valore profondo, affettivo. Questa conoscenza, che chiameremo empatica, non si apprende dai libri ma dall’esperienza, intesa proprio come conoscenza derivante da un contatto ripetuto con la realtà, attraverso i sensi.

Cosa intendo per conoscenza empatica? Empatia è una parolaccia che sentiamo usare spesso nell’ambito del lavoro sociale e che, come succede in questi casi, rischia di essere talmente abusata da divenire priva di significato, un termine “tecnico”… e vuoto. Allora perché usarla parlando di fotografia sociale? Perché si presta a descrivere bene il tipo di approccio che, almeno secondo un filone di fotografi, è necessario per questo genere fotografico.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza.

Empatia deriva dal greco ἐν, “in”, e –πάθεια, dalla radice παθ– del verbo πάσχω, “soffro”, intende la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona o di un gruppo sociale, in modo immediato e talvolta senza far ricorso alla comunicazione verbale.

L’empatia di cui parliamo in questo ambito andrebbe definita meglio come “comprensione empatica”; non è un super-potere ma un atteggiamento cosciente, quindi “coltivabile”, che nasce dal desiderio di capire  il quadro di riferimento dell’altro per condividerlo. Come si coltiva questo atteggiamento? Ovvero, come diventare capaci di comprendere la realtà/l’altro in modo profondo? Attraverso alcune disposizioni, quali:

  • disponibilità ed attenzione verso l’altro – l’altro deve interessarmi non solo come soggetto da riprendere ma anche come persona;
  • sospensione del giudizio sull’altro – questo non comporta la giustificazione dei comportamenti o delle idee altrui, ma l’accettazione incondizionata della persona per comprenderne profondamente il vissuto;
  • capacità di mettersi nei panni dell’altro- provare a vedere e sentire le cose dal suo punto di vista.

L’empatia porta verso l’attenzione all’altro ed alla capacità di vivere la relazione con l’altro come se si fosse al suo posto, è uno “spazio” nel quale è possibile comprendere l’altro attraverso la partecipazione ai suoi sentimenti e la realtà attraverso la partecipazione attiva ad essa.

A dar forza a questo mio pensiero, riporto alcuni brani tratti da una intervista a Sebastiao Salgado, pubblicata su Repubblica.it 2:

fotografia sociale
Sebastião Salgado – Gold mine, Brasile 1986

“[…] il mio linguaggio fotografico nasce sempre da una forma di partecipazione spirituale. Una foto, prima di essere uno sguardo critico, è capacità di materializzare questa partecipazione in una immagine. […] Le mie fotografie non nascono da un desiderio di comunicazione, ma dall’istinto.

“[Un’immagine è riuscita] quando riesco a riprodurre o trasmettere le emozioni che ho provato mentre scattavo. Naturalmente esistono molti diversi tipi di foto e diverse intenzioni fotografiche. Io appartengo alla famiglia di quei fotografi che vanno verso gli altri,verso il mondo. I fotografi che cercano di cogliere le emozioni e l’istantaneità del reale.”

Una sana empatia, però, richiede la capacità di mantenere sempre la consapevolezza della distinzione dall’altro, sia per evitare esperienze di emozioni ‘fusionali’, sia per non lasciarsi travolgere dai sentimenti che si desidera condividere. Per questo motivo credo sia opportuno affiancare al concetto di empatia quello di “giusta distanza”: l’empatia è sana ed efficace se riesce a far vivere l’esperienza della vicinanza all’altro mantenendo l’autonomia personale.

 

Realtà o persona, chi è il soggetto della fotografia sociale?

Non vi sarà sfuggito il passaggio di soggetti, da una generica “realtà” all'”altro”, e forse vi avrà sorpreso. Avrete pensato che mi sono perso nel discorso ed ho confuso i piani… Ma, giuro, non è così. Semplicemente, non è possibile parlare della realtà senza parlare della persona. Detto questo, non voglio essere frainteso e dichiaro subito che la mia non è una visione antropocentrica ma allo stesso tempo faccio fatica a pensare una giustizia sociale a comportimenti stagni: raccontiamo la storia di persone e queste sono inserite in un contesto reale che in qualche modo ci aiuta a capirle meglio; raccontiamo la bellezza o la deturpazione di un ambiente naturale o di una città e non possiamo ignorare chi, in questo contesto, è artefice (e) o vittima di ciò che raccontiamo. La lettura dell’Enciclica “Laudato sii” potrebbe aiutarci ad approfondire questo punto di vista, e penso di dedicargli a breve un po’ di spazio. Ma per ora torniamo al nostro argomento.

 

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Il fotografo “sociale”, primo soggetto di cambiamento

“Una fotografia è grande quando riesce a esprimere pienamente i più profondi sentimenti del suo autore nei confronti di ciò che viene fotografato, divenendo così una genuina manifestazione della sua sensibilità nei confronti della vita considerata nella sua pienezza” (Ansel Adams)

Da una sana conoscenza empatica nasce una sana compassione: nel momento in cui la realtà mi interessa, mi sta a cuore, e la comprendo intimamente, nasce in me il desiderio di prendermene cura (è questo il significato di compassione) e di raccontarla in maniera efficace, in modo che altri la condividano e se ne prendano cura.

Questo movimento, dalla comprensione empatica al compatire, passa prima di tutto dal fotografo che osserva e racconta, operando in lui, prima ancora che nei fruitori delle sue immagini, un processo di cambiamento interiore:  il fotografo che vuole cambiare il cuore delle persone con i propri scatti dovrà essere disposto a lasciare che la realtà possa cambiare, o almeno toccare, per primo, il suo cuore. Fotografare diviene così una opportunità per entrare in contatto con se stessi, conoscersi e crescere attraverso l’osservazione dell’altro da sé3.


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Note

  1. consiglio la lettura di un interessante articolo  qui.
  2. Salgado: “La mia lettera d’amore alla terra scritta con le foto”, intervista di Fabio Gambaro del 30 Gennaio 2014 leggi il testo integrale.
  3. Così ho introdotto un altro interessante “filone” relativo all’uso sociale della fotografia, la “fotografia terapeutica, sulla quale spero di poter scrivere in futuro.

About Cristiano Marini

Mi chiamo Cristiano Marini e su questo blog pubblico le mie fotografie ed i miei articoli su fotografia, formazione, educazione ed inclusione sociale. Se vuoi, puoi comunicare con me attraverso la sezione Contatti o sui social.