Home / formazione & sociale / Housing first: Dalla strada alla Casa, verso una dimora

Housing first: Dalla strada alla Casa, verso una dimora

L’Housing first è un approccio al problema dell’homelessness che affonda le sue radici negli anni ‘50 e ‘60 negli Stati Uniti ma diventa noto negli anni ‘90 quando Sam Tsemberis, considerato suo fondatore, avvia a New York il programma Pathways to Housing, che si basa sull’assunto principale che la casa è un diritto umano primario.
I principi che guidano questo approccio sono: la comprensione del bisogno dell’utente; un supporto che dura per tutto il tempo necessario; accesso ad appartamenti indipendenti situati in diverse zone della città; separazione del trattamento dal diritto alla casa; auto-determinazione del soggetto nelle scelte da fare; definizione di un programma di supporto condiviso tra servizio sociale e utente (recovery orientation); riduzione del danno.

In Italia, l’housing first inizia a diffondersi grazie all’interesse della fio.pSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora) che, sulla spinta delle esperienze avviate dai propri membri, ha favorito la nascita del Network Housing First Italia (NHF), che accoglie numerosi membri, pubblici e privati, provenienti dalle diverse parti di Italia.

Dal 2015 è attivo il programma “housing first Pisa, attuato dalla Società della Salute della zona pisana E gestito dalla Cooperativa sociale Il Simbolo.
Nell’ottica di documentarne le attività, abbiamo realizzato delle sessioni di riprese video e fotografiche, con il coinvolgimento diretto degli utenti.

Come operatore della Cooperativa il Simbolo impiegato nell’housing first, ho impostato un progetto fotografico sull’idea di realizzare dei ritratti ambientati, delle immagini auto-narrative che raccontassero lo stare (perdonate l’infinito sostantivato, non ho resistito…) della persona all’interno della propria casa. Ho realizzato una prima sessione di foto, durante la quale ho chiesto ai nostri amici di organizzare il setup, lasciando loro il compito di scegliere ed organizzare lo spazio dove essere fotografati, in modo che la foto raccontasse il loro stare in casa, magari individuando degli oggetti che rendessero maggiormente narrativa l’immagine. Tecnicamente si tratta di un ritratto ambientato, dove il contesto nel quale la persona è collocata viene compreso nella foto come contesto narrante. Le immagini raccontano più delle parole.

Entrambi hanno scelto senza esitazione il tavolo e la sedia, lasciati nella posizione abituale, ovvero addossati ad una delle pareti della casa, senza cercare oggetti particolari. Quelli che vedrete erano già li e solo in un caso sono stati suggeriti (un libro). Questo scelta del setup non va sottovalutata. Tavoli e sedie potevano anche essere in altre posizioni, potevano scegliere oggetti che invece sono stati ignorati, potevano preferire disposizioni diverse. Avrebbero potuto scegliere la camera da letto o la cucina. Potevano decidere di stare in piedi, appoggiati ad una parete, etc. Io stesso, come fotografo, avevo immaginato qualcosa di diverso. Provate a fare una ricerca per immagini in google, scrivendo housing first, o semplicemente fatevi un giro sul sito del programma pathways to housing. Vedrete che molte foto hanno due protagonisti: la persona e le chiavi di casa. Sono sicuramente foto pensate a tavolino e poi realizzate, una scelta iconografica con finalità “promozionale”, dove le chiavi diventano leitmotiv di tutte le immagini. Ma i nostri non hanno pensato a prendere in mano le chiavi, semplicemente si sono seduti. Su una sedia della propria casa.

Prima di entrare in una mia interpretazione degli elementi narrativi delle immagini, vi mostro le foto. Lo stile che ho scelto per lo sviluppo è volutamente “drammatico” ed il bianco e nero permette all’osservatore di concentrarsi sulla persona, sui suoi tratti e sulla comunicazione emotiva dell’immagine, senza distrazione.

Se l’articolo ti è piaciuto sino ad ora sarebbe davvero fantastico se tu ripagassi il mio impegno facendo click sul like della mia pagina facebook 😉

Proviamo adesso a fare una lettura delle foto. Le domande che mi hanno accompagnato in questo processo interpretativo sono due: cosa raccontano queste immagini? Cosa suscitano da un punto di vista emotivo?

Come avrete capito la prima cosa che mi ha colpito è la scelta della posizione: entrambi hanno scelto di stare seduti, accanto al tavolo.
L’homeless, nonostante l’iconografia cinematografica, è spesso un camminatore. O comunque una persona in continuo movimento. Si sposta per la ricerca di beni di prima necessità o vestiti, si sposta per cercare dei soldi, si sposta per non morire di freddo, si sposta per passare il tempo. E si sposta per cercare un luogo dove dormire. Ogni giorno. Questo è quanto emerso, ad esempio dalle interviste fatte ai due amici ritratti. Stare seduti, quindi, sembra essere una posizione non casuale ma il racconto di una conquista. La casa è prima di tutto un luogo che permette di fermarsi, di stare; un luogo che allontana l’ansia di dover cercare e la paura, sempre in agguato, dell’aggressione. La risposta alla domanda: “cosa ti ha dato la casa” è molto semplice: “sicurezza e fiducia in me stesso”. Credo che questo sia già un risultato notevole, raggiunto di fatto senza l’intervento di nessun operatore ma semplicemente dando un luogo dove stare.

Continuando la lettura delle immagini (con la conoscenza del backstage) vorrei però sottolineare la marginalità del luogo scelto per sedersi rispetto al resto dell’appartamento. In entrambi i casi il tavolo e la sedia sono addossati ad una parete e pare che tutto ciò che serve per narrare l’abitare sia li, come se tutto il resto dello spazio fosse un contorno a quel piccolo angolo di vita. Uno spazio che, dalla posizione scelta, sembra più guardato che vissuto.

Mentre curavo la post-produzione di queste foto, mi tornava insistentemente in mente un brano di un libro di Baricco che mi è sempre stato molto caro. Ne riporto alcuni stralci, perché l’intero brano sarebbe un po’ troppo lungo.

“Gli uomini hanno case: ma sono verande. ..esattamente questa appare la dislocazione destinale dell’uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso.
Era una cosa a cui il professor Bandini credeva, al di là di qualsiasi necessità accademica – lui, semplicemente, credeva che le cose stessero esattamente così, lo credeva anche quando era in bagno. Lui pensava, davvero, che gli uomini stanno sulla veranda della propria vita (esuli quindi da se stessi) e che questo è l’unico modo possibile, per loro, di difendere la propria vita dal mondo, giacché se solo si azzardassero a rientrare in casa (e ad essere se stessi, dunque) immediatamente quella casa regredirebbe a fragile rifugio nel mare del nulla, destinata ad essere spazzata via dal mare dell’Aperto, e il rifugio si tramuterebbe in trappola mortale, ragione per cui la gente si affretta a riuscire sulla veranda (e dunque da se stessa), riprendendo posizione là solo dove le è dato di arrestare l’invasione del mondo, salvando quanto meno l’idea di una propria casa, pur nella rassegnazione di sapere, quella casa, inabitabile. Abbiamo case, ma siamo verande, pensava.

C’era qualcosa di infinitamente dignitoso in quell’indugiare eterno davanti alla soglia di casa, un passo prima di se stessi …

… quando qualcuno, sfinito, ti chiedeva di sederti davanti a lui e ti apriva la sua mente, tirando fuori tutto, davvero tutto, e perfino lì quello che capivi è che eravate seduti sulla veranda, ma in casa non ti aveva fatto entrare, in casa non ci entrava da anni, ormai, e questa era la paradossale ragione per cui era sfinito, lui, lì, davanti a te se ci pensi, pensa le case vuote, a centinaia, dietro la faccia della gente, alle spalle di ogni veranda, migliaia di case perfettamente in ordine, e vuote, pensa l’aria, lì dentro, i colori, gli oggetti, la luce che cambia, tutto che accade per nessuno, luoghi orfani, loro che sarebbero I LUOGHI, gli unici veri, ma quella curiosa urbanistica del destino li ha immaginati come tarlature del mondo, incavi abbandonati sotto la superficie della coscienza, se ci pensi, che mistero, che ne è di loro, dei luoghi veri, del mio luogo vero, dove sono finito IO mentre ero qui a difendermi, non ti succede mai di chiedertelo?, chissà come sto, IO?, mentre sei lì a dondolare, a riparare pezzi di tetto, a lucidare il tuo fucile, a salutare quelli che passano, di colpo, ti viene in mente quella domanda, chissà come sto, IO?, vorrei sapere solo questo, come sto, IO? Qualcuno sa se sono buono, o vecchio, qualcuno sa se sono VIVO?

A. Baricco – ‘City’

 

Oltre le foto di housing first: una riflessione sull’abitare

Le prime tre cose che ho imparato dalla lingua inglese: 1) i gatti amano stare sulle sedie; 2) se cerchi una penna è sicuramente sul tavolo; 3) house ed home sono due cose sostanzialmente diverse…. Lavoriamo con homeless, che da noi si chiamano senza dimora, traduzione letterale. Home infatti è riferito proprio alla dimora, il caro vecchio focolare domestico, il luogo dove sta il cuore. Paradossalmente, giocando con le parole ed uscendo per un attimo dalla cruda realtà, potrebbero esistere senza dimora – homeless – che in realtà sono solo senza casa – houseless – che hanno trovato nella strada la propria abitazione, il luogo del cuore. L’idea romantica del barbone per scelta, insomma (ma esiste?).
Tra le risposte che il sistema dei Servizi alla persona ha dato e da’ all’homelessness, abbiamo iniziato a scoprire e sperimentare l’housing first. Una modalità innovativa (per noi…) che cambia le priorità di intervento, con un prospettiva di efficacia impressionante. Prima la casa, diritto fondamentale di ogni persona, nella certezza che questo attiverà la persona verso percorsi di integrazione e salute, riducendo drasticamente le spese sociali e sanitarie. L’housing first da’ al senza dimora una abitazione, o meglio, da’ all’homeless una house, una risposta alla domanda relativa all’abitare, ovvero alla mancanza di alloggio.
Risolto però il problema tetto, della casa-home, che ne è del “problema dimora”? La casa, tanto attesa e desiderata, diviene, immediatamente, il luogo del cuore?
La risposta è complessa ma mi sento di dire che in linea di massima è no, non subito almeno.

Le chiaccherate con i nostri amici che hanno ricevuto la casa, la loro osservazione, le sessioni fotografiche fatte per raccontare i primi mesi della loro esperienza in casa, la lettura delle immagini realizzate, mi fanno pensare che tra l’abitare ed il trovare dimora ci sia una separazione, una distanza, che solo con il tempo si potrà colmare. La strada sembra restare inconsapevolmente il luogo di vita, l’unico che si conosce davvero, ed il tempo liberato dalla necessità di reperire un luogo per dormire o passare il tempo non è facilmente rimpiazzato con attività diverse. Così la strada resta spesso il riferimento per le relazioni ed il tempo libero.

Anche l’organizzazione dell’abitazione sembra raccontare la fatica del dimorare in un luogo nuovo. Certo è curata, pulita, ordinata, ma allo stesso tempo sembra vissuto più come un luogo dove tornare la sera e quindi fonte di tranquillità, che non la dimora dove stare ed essere pienamente se stessi.

Da queste letture nascono alcune domande che restano necessariamente aperte.

Prima di tutto, se l’housing è il primo passo per un processo di cambiamento, quale è la meta di questo processo? Quale cambiamento ci aspettiamo, a livello personale una volta cambiata la situazione abitativa della persona? Dal mio punto di vista direi: trova una dimora, il luogo del cuore. Ovvero raggiungere l’uscita reale dalla condizione di homeless. Ma è questo che la persona vuole? E questo che chiede?

Qui, credo, si gioca il ruolo degli operatori come coloro che accompagnano in modo non direttivo dall’abitare al dimorare, mettendosi in ascolto della persona e dei suoi bisogni (forse meglio i desideri?). Bene, come farlo? Con quali strumenti?

Ed ancora: fino a che punto è metodologicamente corretto aspettarsi dei cambiamenti, se l’auto-determinazione della persona è centrale nel programma housing first? In altre parole, quale rapporto costruire (e come costruirlo) tra servizio sociale ed utente, in modo che si definisca un programma di supporto realmente condiviso (recovery orientation)?
In conclusione, l’idea di fare delle foto, nata dalla necessità di raccontare cosa stiamo facendo,  è diventata subito una opportunità: per le persone, di raccontarsi e raccontare la propria esperienza dell’abitare; per gli operatori, di riflettere sul percorso fatto e su ciò che ancora ci aspetta nel futuro. Nelle prossime sessioni di foto penso che sarò io a proporre un setup che tenterò di costruire con loro. Sarà diverso, ampio, e comprenderà parte della loro casa. Magari ci mettiamo anche le chiavi in bella mostra! Poi mi piacerebbe mostrare loro le foto delle due diverse sessioni, il prima ed il dopo, e chiedere cosa ne pensano. Vedremo cosa ne verrà fuori.

Licenza Creative Commons
Dalla strada alla Casa… verso una dimora di Cristiano Marini è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale. Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso www.cristianomarini.biz.

About Cristiano Marini

Mi chiamo Cristiano Marini e su questo blog pubblico le mie fotografie ed i miei articoli su fotografia, formazione, educazione ed inclusione sociale. Se vuoi, puoi comunicare con me attraverso la sezione Contatti o sui social.