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Il Ritratto Sociale: quando una fotografia restituisce dignità

In un precedente articolo ho parlato della fotografia sociale e della sua capacità di indurre cambiamenti. In un secondo articolo ho cercato di mettere in evidenza gli aspetti essenziali per realizzare fotografie sociali efficaci. In questo post mi concentrerò su un “genere nel genere”, il ritratto sociale.

Cosa si intende per ritratto sociale? Quali sono le sue caratteristiche? esistono delle regole per un buon ritratto sociale? Se ti stai facendo queste domande sei nel posto giusto… continua a leggere per trovare le risposte! Se invece sei capitato qui per caso… leggi ugualmente, potresti trovare questi contenuti molto interessanti…

 

Raccontare l’umanità tra presenza ed assenza

In un interessante articolo reperibile in rete, “tra presenza e assenza, esempi di fotografia ‘sociale’ contemporanea”, Nicola Zito sottolinea come, nella fotografia sociale, le persone e le loro azioni siano sempre al centro della narrazione ma secondo due filoni, uno che ne privilegia la presenza, l’altro l’assenza.

Il ritratto sociale si colloca ovviamente nel primo filone, riprendendo il singolo come significante della condizione sociale del gruppo a cui appartiene, rappresentante del tutto, frammento di una realtà più ampia alla quale allude e rimanda.

La fotografia diviene così medium di relazioni e di dialogo, un ponte, capace di rompere le barriere tra tre (e non due) soggetti: il fotografo, il soggetto ritratto e l’osservatore che fruirà dell’opera divenendone a sua volta interprete.

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Il circolo ermeneutico nel ritratto sociale e le interazioni tra Soggetto, Fotografo ed Osservatore.

La fotografia, quindi, e in modo particolare il ritratto, nella sua funzione di “rimando” ad un tempo (il momento dello scatto), ad un luogo (il contesto dello scatto) ed alla presenza reale del soggetto (nel momento dello scatto), permette un contatto, una contemporaneità tra passato (il momento dello scatto) e presente (il momento della fruizione) ma anche tra luoghi (il contesto delle scatto ed il contesto della fruizione) e persone (soggetto-osservatore-fotografo).

relazioni

Questa funzione di mediazione è realizzata grazie al potere evocativo dell’immagine ed alla sua capacità di toccare l’interiorità delle persone, al di là del dato rappresentato, come ha ben evidenziato C. S. Lewis nel suo “Diario di un Dolore”:

 

“Non importa se tutte le foto di H sono brutte […] Le immagini sulla carta o nella mente non sono importanti in sé. Sono solo agganci”.

 

Ritratto sociale e ritratto ambientato

Daniel Etter Photo
Laith Majid, an Iraqi, broke out in tears, holding his son and daughter after they arrived safely in Kos, Greece, on a flimsy rubber boat (Daniel Etter, The New York Times – August 15, 2015)

Gli autori che prediligono la narrazione del contesto sociale attraverso la presenza umana, tendono a scegliere come proprio stile il cosiddetto “ritratto ambientato”, nel quale il soggetto è inserito nel suo contesto, visto come funzionale alla narrazione della storia o alla denuncia di certe condizioni di vita. Questo tipo di ritratto in genere è molto esplicito ed efficace. Alcuni esempi rilevanti di questa scelta stilistica li troviamo nel lavoro di famosi fotografi come Lewis Hine, Robert Capa e molti altri grandi maestri della storia della fotografia.

Ai giorni nostri il ritratto ambientato è molto diffuso nella fotografia sociale e documentaria. Proprio mentre scrivo questo articolo, è stato assegnato il premio Pulitzer per la sezione Breaking News Photography a Mauricio Lima, Sergey Ponomarev, Tyler Hicks e Daniel Etter del New York Times, che hanno fotografato il viaggio dei migranti, i pericoli che hanno affrontato e le difficoltà che incontrano i paesi che li ospitano (visibili qui) ed allo staff fotografico di Thomson Reuters, sempre per fotografie che hanno raccontato il lungo viaggio dei migranti verso destinazioni spesso sconosciute (visibili qui). Tra entrambi i gruppi di foto premiate troviamo diversi esempi significativi di ritratto ambientato.

 

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Il ritratto ambientato, come mostrano gli ultimi esempi citati, ha un forte impatto emotivo ed una indubbia efficacia narrativa. Dal mio punti di vista, che è quello di chi usa la fotografia come mezzo per attivare processi di inclusione sociale, il ritratto ambientato presenta anche qualche  “rischio”. Il primo è quello di identificare il soggetto con la condizione sociale che vive e rappresenta, passandolo di fatto in secondo piano rispetto a ciò a cui rimanda. Il soggetto diviene icona di altro, ma perde consistenza come persona in sé o, peggio,  può essere leso nella sua dignità di persona. In proposito mi sembra molto opportuno ricordare le parole di Salgado in una intervista rilasciata a Fabio Gambaro per Repubblica.it:

“Davanti al dolore e alla sofferenza, mi è capitato spesso di non riuscire a fotografare, perché troppo scosso dalle emozioni. Mi sembrava più importante prendere in braccio un bambino morente e correre a cercare un medico. Altre volte di fronte alla violenza e all’umiliazione, mi sono vergognato di appartenere al genere umano e mi sono messo a piangere. Tutte le volte che una foto rischiava di ledere la dignità delle persone, ho preferito non scattare”

Un secondo rischio, evidenziato da alcuni commentatori, è quello della spettacolarizzazione della tragedia, che a sua volte produce un effetto contrario a quello cercato con la fotografia sociale: l’assuefazione. Questo è certamente un rischio molto concreto la cui causa, però, va cercata a mio parere, non nell’abitudine all’immagine drammatica ma nelle difese che inconsciamente mettiamo in atto per proteggere noi stessi ed i nostri stili di vita; difese che, a volte, possono produrre indifferenza.

«Hanno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo».

Questa frase di Dostoevskij fu usata dalla ONG Actionaid per commentare la foto del piccolo Aylan. Mai commento fu più approriato!

 

Ritratto sociale e dignità della persona

“…egli è “stato”, si è trovato davanti all’obiettivo in un particolare momento della sua vita, è stato una persona, un individuo, non certo un simbolo.” R. Barthes, La camera chiara pp 77-78.

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Un esempio di ritratto sociale centrato sul soggetto: un richiedente asilo accolto in uno dei centri della zona pisana.

Nonostante il largo uso del ritratto ambientato, alcuni fotografi sociali prediligono ritratti che mirano ad isolare il soggetto dal contesto, senza dare così informazioni sulla provenienza sociale dello stesso. Sono ritratti privi di indizi o didascalie che lasciano all’osservatore il compito di interpretare, di “leggere” la storia della persona attraverso ciò che racconta di sé attraverso il volto e le sue espressioni.

Si tratta di opere che, come sottolinea la frase del critico francese Barhtes (…) appena citata, mettono al centro dell’attenzione l’esistenza reale del soggetto e la sua presenza in un dato luogo e momento. Senza sentire la necessità di collegare in maniera esplicita il soggetto ad un contesto o gruppo sociale. Il soggetto è stato, ovvero si è offerto allo sguardo umano in un luogo ed un tempo, è esistito realmente ed il ritratto fotografico ne è la prova. Aggiungerei che il ritratto, in questo caso, ha la funzione ed il potere di rendere nuovamente presente e visibile non solo chi è vissuto nel passato ma anche chi, seppur contemporaneo all’osservatore, è, spesso, invisibile agli occhi di tanti. Nel denunciare, quindi, il ritratto sociale così inteso, dona visibilità, permette di esistere, restituendo dignità. Il soggetto non è solo parte di un contesto o il rappresentante di una situazione socialmente deprecabile ma è e resta prima di tutto persona. Il suo volto, il suo sguardo, le espressioni che offre all’obiettivo sono frammenti di un racconto che il fotografo ha registrato, interpretato nello scatto e nella post-produzione ed offre alla fruizione ed all’interpretazione degli osservatori.

In questo tipo di ritratto, la fotografia diviene anche strumento per cogliere l’essenza del soggetto, la sua interiorità. Fotografare una persona (ed osservare le sue foto) è, come abbiamo detto, entrare in relazione con essa; di più, è riconoscergli il diritto di esistere.

Anche in questo stile però è doveroso sottolineare dei “rischi”. Il più importante ed evidente è il carattere di ambiguità della fotografia, legato allo sguardo del fotografo che ha una sua pre-comprensione del soggetto e della sua storia e che lo porterà di fatto una propria versione dei fatti, non necessariamente oggettiva (per quanto possa essere oggettiva una foto). Un secondo “rischio” va cercato nello sguardo dell’osservatore che, in assenza di didascalie, sarà portato a dare un senso a ciò che legge nell’immagine, con il rischio di proiettare su di essa emozioni e significati che in realtà appartengono a lui, anche se suscitati o attivati dall’immagine stessa.

Conclusione

Il ritratto sociale non è solo un dato materiale o un’opera artistica ma un mistero da contemplare il cui segreto, parafrasando Emmanuel Levinas, la sua vera natura, è nella domanda che il soggetto mi rivolge e nel suo essere sempre oltre e, soprattutto, nel fatto che il faccia a faccia con l’altro mi chiama ad una responsabilità nei suoi confronti, mi spinge alla sollecitudine. Se questo accade, i ritratto, a prescindere dallo stile, sarà realmente efficace.

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Mi chiamo Cristiano Marini e su questo blog pubblico le mie fotografie ed i miei articoli su fotografia, formazione, educazione ed inclusione sociale. Se vuoi, puoi comunicare con me attraverso la sezione Contatti o sui social.